Storytelling Chronicles: Mi prenderò sempre cura di voi

Storytelling Chronicles: Mi prenderò sempre cura di voi

Nota

Cari lettori di AlteregoUniversus, eccomi di nuovo a prendere in prestito lo spazio virtuale di Liv per tediarvi con una nuova storia, parte della rubrica Storytelling Chronicles ideata da Lady C de La Nicchia Letteraria.

copertina storytelling: Mi prenderò sempre cura di voi
foto di Tania

Ho scritto questo racconto, “Mi prenderò sempre cura di voi”, con non poca fatica, devo confessare. Non perché avessi problemi con i personaggi o con la storia in sé, ma perché in questo mese l’arma segreta di ogni scrittore – leggasi ispirazione – si è bellamente presa gioco di me e ha voluto abbandonarmi, lasciandomi a scrivere in balia della ragione, cosa che non sempre porta buoni risultati.

Spero che questo racconto possa comunque piacervi, anche se meno sentito – da parte mia – rispetto al solito. Ho cercato di portarvi con me alla scoperta di un mondo che non sempre ha spazio nella nostra quotidianità perché penso sia importante, soprattutto in questo difficile momento che stiamo attraversando a livello globale, non dimenticare nessuno per strada, men che meno coloro che hanno la sfortuna di essere ben più in disgrazia di noi. Abbraccio virtualmente tutti voi, spero stiate bene e che questa quarantena vi stia dando modo di scoprire nuove passioni.
A presto, Stephi.

Mi prenderò sempre cura di voi

È mezzanotte e trentasette quando il fragore della prima bomba esplode a duecento, forse trecento metri da qui, traforando i timpani delle nostre orecchie: il rumore più forte che abbia mai sentito. Mi alzo dal letto in una frazione di secondo: gli occhi spalancati, le orecchie assordate, apro la bocca per gridare senza riuscire a sentirmi.

«Presto! Presto! Dobbiamo andare via! Via di qui!»

Non faccio in tempo a pronunciare queste poche parole con tutto il fiato che ho in corpo che un altro ordigno scoppia nella notte, questa volta ancora più vicino. Sotto ai nostri piedi, ogni cosa trema.

«Hassan, prendi le tue cose, subito! Aisha, anche tu, svelta! Non c’è più tempo, sono troppo vicini! Veloci! Veloci!»

Nel buio – l’esplosione ha fatto saltare la corrente elettrica e la luna è troppo lontana per poter far luce dentro casa – afferro alla rinfusa quante più cose incontro sul mio cammino, riempiendo alla bella e buona la sacca di iuta che, poco prima di andare a dormire, avevo sistemato di fianco al letto. Un rituale scaramantico che avevo iniziato a ripetere precauzionalmente tutte le sere dall’escalation di rappresaglie delle ultime settimane. Speravo sarebbe rimasto un’esercitazione paranoica il più a lungo possibile. Mi sbagliavo.

«Baba[1], baba, mi scappa la pipì!» La voce squillante di Hassan mi riporta sulla terra.

«Habibi[2], dobbiamo andare via di qui, non puoi proprio aspettare?» gli chiedo, dolcemente. Cerco di restare calmo, per quanto posso; di nascondere dietro il più rassicurante dei sorrisi tutta la paura che mi attanaglia lo stomaco.

«No, devo proprio andare in bagno…» sussurra, strizzando gli occhi.

«Va bene, va bene. Veloce, avviati, arrivo!».

Mentre lui si dirige a passo svelto verso la toilette, mi volto verso mia moglie, accarezzandole delicatamente il viso con la mano. «Aisha, finisci di preparare tu la borsa. Prendi solo le cose che ci servono, okay? E sii veloce come un lampo, come solo tu sai essere. Va bene?»

Aisha annuisce, un’unica lacrima le riga il volto. Gliela asciugo con una carezza, prima di lasciarla andare e raggiungere Hassan.

Non faccio in tempo ad individuarlo, nel buio che avvolge la stanza: la terza bomba arriva all’improvviso, come la primavera dopo il più freddo degli inverni, e deflagra poco sopra le nostre teste.

Per un tempo che sembra eterno, credo di essere morto. Non vedo niente, attorno a me, tutto è fermo. Un ronzio insistente mi trivella i timpani. La polvere bianca avvolge ogni cosa. Sono coperto di macerie. Non riesco a muovermi. “È la fine”, penso, “è il tempo dell’addio”. In bocca, il sangue si mischia alla terra. Mi sento ardere: i capelli, le guance, gli arti, ogni parte di me brucia. Aprire gli occhi mi costa fatica. Respirare mi costa fatica. Restare in vita mi costa fatica. Così, mi abbandono al destino.

È un pianto inconsolabile a risvegliarmi. Le lacrime disperate di Hassan guidano la mia anima nell’oscurità, trascinandomi verso la luce. Non grida, non parla, singhiozza senza sosta al mio fianco.

«Ha… Habibi…» sussurro, con tutta la forza che mi è rimasta: il flebile suono che esce è sufficiente a interrompere il lamento e trasformarlo nella più bella delle speranze.

«Baba!!!» grida lui, una gioia dipinta sul suo volto che mai mi era capitato di vedere, prima di questo momento.  «Oh baba, sei vivo! Sei vivo!» continua ad urlare, tra un singhiozzo e l’altro.

Tossisco, su di me il peso di una delle pareti di casa, crollata con il deflagrare della bomba. Hassan mi aiuta ad allontanare i calcinacci dal mio corpo. Sono steso supino in mezzo a quello che era il nostro salotto. Su di noi non c’è più un tetto, solo cemento distrutto dall’esplosione e un cielo coperto dalla polvere, attraverso la quale è impossibile vedere le stelle.

Ci metto un po’, a liberarmi. Sono ricoperto di cenere e graffi. Credo di avere una gamba rotta e anche il resto del mio corpo non è messo troppo bene. Mi tolgo la terra dagli occhi e, guardandomi la mano, mi rendo conto di sanguinare dal capo. Al tatto, la ferita non sembra profonda. “Appena siamo fuori di qui dovrò farmi medicare”, rifletto. Continuo a spostare le macerie che mi bloccano a terra: dopo qualche minuto, la metà superiore del corpo è libera, così lentamente mi tiro su seduto.

Mi guardo intorno, la disperazione negli occhi: la mia casa, la nostra casa, non è che un grumo di polvere e mattoni. Ci sono scintille dappertutto, dovute ai cavi tranciati dall’esplosione; le macerie sono un tutt’uno con il mobilio. Non riesco a riconoscere più il quartiere nel quale sono cresciuto: visto da questo squarcio causato dallo scoppio, sembra un set cinematografico di uno di quei film americani dove si racconta la guerra in questo o quel Paese arabo. Solo che stavolta non siamo di fronte a una finzione. Ad essere saltati in aria siamo noi. E non c’è niente di irreale in questo, al contrario: ogni pietra, ogni muro divelto, ogni filo ciondolante è così vero da ferire. A morte. Come la più cruda e profonda delle coltellate, inferta dritta al cuore.

Allontano le ultime rovine dalle gambe, una fitta di dolore dopo l’altra. Credo di aver rotto quella sinistra: mi tolgo la camicia e la avvolgo più stretta che posso sull’osso, in modo da tenerlo il più possibile fermo.

«Habibi, ho bisogno di te…» dico ad Hassan, che mi aiuta a tirarmi su. Ha solo otto anni, ma è già un piccolo, grande ometto. Non appena sono in piedi, mi stringe forte le braccia attorno alla vita. Ricambio il suo abbraccio, più stretto che posso.

«Non ti lascio più andar via.» gli dico, cercando di rassicurarlo mentre scoppia di nuovo in un pianto inconsolabile.

La consapevolezza, seguita da un brivido che corre lungo la schiena, arriva improvvisa come una doccia fredda: «AISHA!!!». Crollo a terra, e con Hassan ci mettiamo a scavare come pazzi, a mani nude, tra le macerie del salotto. La troviamo subito, la borsa di iuta stretta tra le braccia, il corpo ricoperto da uno strato di polvere, sotto una lastra di cemento più sottile delle altre, che non si è spezzata nello scoppio.

«Aisha, amore, apri gli occhi!» continuo a ripeterle, facendo quanto più spazio riesco attorno al suo corpo immobile. «Ti prego, apri gli occhi. Sono davanti a te. Amore mio, ti prego, resta qui con noi.» Intorno, un silenzio surreale sembra essere calato sulla stanza. Hassan fissa la madre impietrito, a qualche centimetro da me. Chiudo gli occhi, trattenendo le lacrime. Aisha non si muove, il suo corpo minuto non risponde. Respiro profondamente, prima di alzare le palpebre e provare a rianimarla un’altra volta.

«Mamma!» grida all’improvviso Hassan, e il cuore per poco mi esplode. Apro gli occhi e di fronte a me Aisha sta tossendo, togliendosi la polvere dal viso con la mano.  Sanguina un po’, ma non piange. Nei suoi occhi un velo impenetrabile di paura mista a sgomento. La prendo per mano e delicatamente la stringo a me, insieme ad Hassan. Restiamo stretti così, immobili e singhiozzanti, per il tempo che basta a ricomporci un po’, prima di tornare lucidi. Tutto intorno a noi è un susseguirsi di sirene spiegate, grida strazianti, polvere e sangue.

«Dobbiamo uscire di qui il più velocemente possibile, d’accordo?» chiedo con una domanda che è più un ordine che una possibilità, guardandoli entrambi negli occhi. «Ce la fate a camminare?»

«S-sì baba», mi risponde Hassan.

«Tu amore? Ci riesci?» Aisha non risponde. Lo sguardo fisso di fronte a sé, capisco che è viva solo dal suo debole respiro. «Aisha, guardami.» Le prendo dolcemente la testa fra le mani, costringendola a riversare i suoi occhi nei miei. «Riesci a camminare? Fammi solo un cenno con la testa, ti prego.» Quasi impercettibilmente, lei inizia ad annuire. «Okay, andiamo allora.»

Provo ad alzarmi in piedi, ma una fitta straziante mi pervade il corpo. Ricordo solo in quel momento di avere una gamba rotta, e di essere io quello più impossibilitato a muoversi, tra i tre. Hassan capisce subito, così mi si avvicina e mi aiuta ad alzarmi.

«Mamma, devi aiutarci anche tu. Non riesco a sostenere baba da solo.» Il tono deciso con cui Hassan parla ad Aisha la convince.

Raccolgo la borsa di iuta da terra e la indosso come un piccolo zaino. Facendoci largo tra i resti di quella che fino a qualche minuto prima avevamo chiamato “casa”, ci muoviamo lentamente verso l’esterno. Ogni passo è una fitta lancinante di dolore; vorrei gridare, ma stringo i denti e continuo a muovermi, per non spaventare di più il piccolo Hassan, già terrorizzato dallo sguardo perso della madre.

Raggiungere la porta di casa è un’impresa mostruosa, scendere le scale una vera e propria prova di sopravvivenza. Per un istante solo penso di non farcela: le lacrime mi rigano il volto in silenzio, un po’ per il dolore fisico, molto di più per il dolore emotivo. Lasciare queste mura non significa soltanto aver perso un posto sicuro, significa aver perso tutto. Una casa, un nido, una parte indelebile di me e della nostra famiglia.

«Baba…» sussurra Hassan, mentre ad occhi chiusi mi preparo a dire addio a tutto ciò che mi sto lasciando alle spalle.

«Dobbiamo pregare, habibi», sussurro. «Pregare, affinché ciò che ci aspetta sia migliore…»

Annuisce come solo i bambini sanno fare quando, senza capire davvero ciò che stiamo dicendo loro, la fiducia nei nostri confronti è tanto grande da rassicurarli anche di fronte all’incomprensibile. Stringo forte la sua mano, e con ancora più forza quella di Aisha, tanto paralizzata che guardandola quasi non la riconosco. Nei suoi occhi c’è solo un’ombra lontana di quella vivacità che solitamente le riempie il viso. I capelli ricoperti di polvere, lo hijab strappato, i vestiti macchiati di sangue: anche all’esterno, niente di lei sembra essere a posto.

«Tesoro…» la chiamo, nemmeno un muscolo di lei risponde.

Chiudo gli occhi, aggrappandomi alla sua mano con tutta l’energia che mi resta, e inizio a pregare. Per tutto quello che abbiamo perso. Per tutto quello che abbiamo salvato. E per tutto quello che ci aspetta.

Quando raggiungiamo la strada, la Idlib[3] che ci ritroviamo davanti non è che un ricordo lontano. Edifici distrutti, colonne di fumo, macerie di uomini e cemento hanno trasformato in una decina di minuti una città di oltre un milione di abitanti.

La strada principale è affollata di persone che si sostengono l’un l’altra, bambini che piangono, animali che scappano, senza nemmeno domandarsi verso dove.

Sorretto da mia moglie e mio figlio, avanzo lentamente verso quello che era il suq dove solo questa mattina avevo comprato verdure e carne fresca per i pasti della settimana. Ora del mercato non restano che calcinacci; le bancarelle, divelte, sono tutto un groviglio con stoffe e spezie. I commercianti, disperati, le guardano inermi. Non hanno neanche più forza di piangere, non ce l’abbiamo neanche noi.

A qualche centinaio di metri intravedo la cupola della moschea tra la polvere, o meglio, quel che ne resta. In ogni angolo, scintille, sangue, uomini e donne, grandi e piccoli, ammutoliti. Qualcuno si fa largo tra i resti dei palazzi con un motorino, altri avanzano a bordo di biciclette.

Ovunque posi gli occhi vedo feriti, morte, devastazione. Non avrei mai voluto mio figlio conoscesse questo mondo: guardarlo dalla televisione ci aveva impressionato, ritrovarcelo fuori la porta di casa ci lascia senza fiato.

«Non so quale altro altro animale…» sussurra Aisha. «Non so quale altro animale farebbe questo ai suoi simili, se non l’uomo.»

Spingo con tutto me stesso le lacrime in fondo al cuore, la guardo e poi guardo Hassan. Prendo fiato, cerco di inspirare tutta l’aria che i miei polmoni possono permettersi di catturare. Chiudo gli occhi e il mondo inizia a vorticare: se non fossi aggrappato a loro, crollerei.

«Baba, dobbiamo portarti in ospedale, perdi sangue, tanto sangue», dice Hassan, il cui sguardo rimbalza velocemente dalla mia testa agli occhi della madre.

«Ha ragione, Amir, dobbiamo», sentenzia lei, e in quel verbo c’è poco spazio per qualsiasi tentativo di controbattere, così ci avviamo verso il lato opposto della città, seguendo una fila di altri uomini e donne e bambini. Insieme formiamo un cordone umano silenzioso, il vuoto spezzato solo dalle sirene delle ambulanze che sfrecciano in lontananza, a salvare vite più compromesse delle nostre.

Quando arriviamo nelle vicinanze dell’edificio, la desolazione è così grande che mi spinge a coprire gli occhi di Hassan stringendo il suo volto alla mia pancia. Sono centinaia i corpi avvolti da teli macchiati di sangue, disposti in fila lungo il marciapiede che conduce al pronto soccorso.

«Facciamo un gioco habibi, ok?» gli chiedo. «Ad occhi chiusi racconti alla mamma e a me quello che vedi, va bene?» La voce si incrina mentre di fronte a noi altre due salme vengono stese a terra.

«Ma baba…» dice.

«Forza tesoro, portaci via!» Aisha lo accarezza dolcemente sulla nuca, prendendolo in braccio e stringendolo forte a sé. Sembra aver ripreso un po’ dell’energia che di solito la anima. Per Hassan.

«Vedo il mare. Un mare azzurro come il cielo. Come quella volta che siamo andati dallo zio a Qalaat Jabaar.»

«Al fiume, habibi, era un fiume» lo corregge Aisha, con un buffetto sulla guancia destra.

«Un fiume bello come il mare.» insiste lui, e nessuno di noi osa dire il contrario.

«Cos’altro c’è?» chiedo, mentre avanziamo verso l’ingresso.

«Un delfino! Salta altissimo, nell’aria!» dice lui con un velo d’entusiasmo. «È una gara, chi salta più in alto tra il delfino e il gabbiano!»

«Un gabbiano che salta?» sorride Aisha.

«Sì, salta! Dalla testa del delfino!» ridacchia Hassan.

«Un gabbiano che salta dalla testa di un delfino… che fantasia, habibi!» esclamo, stringendo Hassan e Aisha prima di appoggiarmi goffamente al muro dell’ospedale e scivolare lentamente a terra.

«Entro a chiamare qualcuno, aspetta qui!» mi dice Aisha, prima di aggiungere, rivolta ad Hassan: «Habibi, continua a raccontare la storia a baba mentre io vado a cercare un dottore, va bene? Gli tieni compagnia, al tuo papà?»

Hassan sorride e annuisce, poi si accovaccia al mio fianco sul marciapiede, con lo sguardo rivolto verso il muro dell’edificio, lasciandosi alle spalle l’orrore della guerra.

«Baba… cosa faremo quando sarai guarito? Non abbiamo più una casa…»

mi chiede preoccupato, non appena la madre si allontana.

«Troveremo zio Asif e andremo insieme ad Amburgo.»

«E se non ci vorranno?»

«Faremo del nostro meglio per farci voler bene. Lavoreremo, aiuteremo, ci sacrificheremo, finché le nostre azioni e la nostra storia colpiranno i loro cuori e le loro menti, e capiranno, e ci accoglieranno.»

«E se non lo faranno?»

«Lo faranno. In un mondo disumano, basta l’umanità di una sola persona per cambiare le cose. Finché troveremo anche una sola persona disposta a schierarsi dalla nostra parte, tutto questo dolore avrà un senso e non morirà la speranza che possa essere fermato. Ricordalo sempre, habibi. Una sola persona può fare la differenza. Una sola goccia può cambiare la direzione delle onde. Ma una nuvola non può oscurare il sole. Non per sempre, perlomeno.»

Hassan sorride, e mi abbraccia. Alle sue spalle, Aisha; non so da quanto tempo è tornata, immagino da un tempo sufficiente per aver ascoltato le mie parole, viste le lacrime sul suo volto.

«Amir…» dice, chinandosi a terra e stringendo Hassan e me nel più dolce degli abbracci.

«Mi prenderò sempre cura di voi. È una promessa. Ad entrambi.»

Hassan e Aisha annuiscono.

«Amir!» grida un medico in camice bianco a qualche metro da noi. «Andiamo, Hassan, aiutami a tirare su baba», dice mia moglie, afferrandomi per un braccio. «Per ora tocca a noi prenderci cura di lui.»

Autore: Stephi

Informazioni

baba[1] = “papà” in arabo
habibi[2] = “amore mio” in arabo
Idlib[3] = città della Siria nord-occidentale, situata vicino al confine con la Turchia, vicino all’antica e grande città archeologica di Ebla.

Disclaimer & copyright

Il contenuto pubblicato sopra è protetto dalla normativa vigente in materia di tutela del diritto d’autore, legge n. 633/1941, qualsiasi riproduzione anche parziale senza autorizzazione è vietata.
Questa breve storia è un’opera di fantasia, personaggi e situazioni sono inventate e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

18 Comments

  1. Sono Silvia di Silvia tra le righe. Ho I brividi. Hai descritto la situazione di molti padri in gran parte del mondo e sono situazioni che dovrebbero generare in noi un desiderio di aiutare invece che di respingere. Non c’è nulla di peggio che vedere l’infanzia negata a un figlio o il doverlo crescere tra le bombe. Scrivi benissimo e hai uno stile che cattura. Complimenti.

    1. Stephi

      Ciao Silvia, che dirti se non grazie? Mi fa davvero piacere tu abbia apprezzato sia la tematica che il modo in cui è stata trattata, e ti ringrazio per le parole che hai scritto. Non posso che concordare con te: le situazioni che si vivono nel resto del mondo troppo spesso vengono lasciate in secondo piano o raccontate da un punto di vista che ci fa dimenticare che si tratta di persone come noi, con la sfortuna di essere nate in una parte di mondo diversa dalla nostra. Ho cercato a modo mio di dare spazio anche a loro, per una volta. Sapere che è stato apprezzato è una soddisfazione! Grazie ancora!!

  2. Simona Busto

    Un racconto toccante, direi addirittura straziante.
    Si percepisce tutto l’orrore della guerra, che irrompe nella normalità e la devasta. La guerra toglie tutto e lascia le persone con un enorme vuoto.
    Si sente il dramma, ma sono contenta che tu abbia lasciato accesa la fiammella della speranza. Fa bene al cuore sapere che c’è comunque qualcosa a cui aggrapparsi.

  3. Ciao Stephanie!
    Be’, c’è poco da dire… Complimenti!
    È un racconto molto attuale, straziante perché ci sono milioni di persone che hanno vissuto e stanno vivendo il racconto che tu hai creato! Mi ha ricordato “Je viens d’Alep: Itinéraire d’un réfugié ordinaire” di Joude Jassouma, un romanzo-biografia che testimonia cosa sia la guerra in Siria e come serva coraggio e forza per aiutare la propria famiglia, come il tuo Amir! Davvero bello.
    Hai creato dei dialoghi molto credibili e costruiti con una certa attenzione che me li ha fatti apprezzare, come le descrizioni dei momenti più concitati e pericolosi. È davvero una bella lettura.

    1. Stephi

      Ciao Federica! Non conoscevo il testo che citi, ma ne prendo nota, leggere di queste tematiche mi ha sempre affascinato e incuriosito, perché ci danno una prospettiva sulla questione diversa da quella che ci raccontano i media occidentali e credo che sia sempre un bene ascoltare entrambe le parti della storia. Ciò detto, ti ringrazio di cuore per le tue parole: ho cercato di fare del mio meglio per quanto riguarda i due miei crucci – dialoghi solitamente troppo lunghi e descrizione di ambienti – e sapere che ti sono arrivati non può che riempirmi di soddisfazione. A presto, Stephi

  4. Avrai pure scritto in balia della ragione, ma fattelo dire, Stephanie: il tuo prodotto è molto valido! Complimenti *-* Questa volta i dialoghi sono al top -brevi e di facile comprensione, ma così profondi da toccare l’anima del lettore!-; quindi, a parte il fatto decisamente soggettivo per cui l’emotività scaturita dalle tue righe non mi ha investita come mi aspettavo da un racconto di simile fattura, non ho riscontrato alcun difetto 😀 Mi piacerebbe menzionare due aspetti importanti della tua storia che mi hanno davvero colpita, da una parte l’attualità della situazione descritta -visto come uno dei tanti eventi che molto spesso vediamo attraverso i telegiornali, fai davvero riflettere, con parole semplici, sulla speranza che queste persone devono nutrire per forza nel prossimo, individui che, a volte, purtroppo, non sono disposti ad allungare la mano e aiutare considerevolmente chi è in ovvia difficoltà-, dall’altra lo scambio di ruoli fra padre e il restante duo -per tutto il tempo, Amir ha dimostrato, non solo discorrendo ma anche facendo, di essere il “capo branco” con solidi obiettivi per sé e la sua famiglia, malgrado la vicissitudine in atto abbastanza tragica, ma, alla fine, sono Aisha e Hassan a prendere in mano le redini della situazione, dimostrando sia l’unità del loro nucleo sia la forza del vero amore. <3

    1. Stephi

      Tu con questi commenti vuoi proprio farmi piangere <3 Sono felicissima di sapere che tu abbia apprezzato la parte dei dialoghi: i commenti che mi avete fatto alla precedente storia sono stati un ottimo aiuto per scrivere questo racconto e di questo non posso che ringraziarti, perché senza la tua rubrica probabilmente non mi sarei resa conto di questa mia tendenza a scrivere parlati troppo lunghi. Per il fattore emotività, come dici, è personale. Storie che fanno piangere me non fanno piangere altri e viceversa, credo anzi che sia anche normale che non tutti di fronte allo stesso testo reagiamo allo stesso modo, e va benissimo così. Sapere comunque di essere riuscita a farti apprezzare la descrizione della situazione e il rapporto che ho cercato di creare tra i protagonisti è già un'enorme soddisfazione per me quindi, di cuore, grazie!!

  5. Ma che brava che sei stata!!
    Ti hanno fatto i complimenti le altre ma devo per forza aggiungere i miei!
    Sei stata bravissima non solo nella narrazione scorrevole e di impatto ma anche per aver parlato di questo tema cosi forte e attuale.
    Ho sentito l’angoscia, la paura della voce mentre leggevo e ne sono stata coinvolta in ogni fase. Non è certo facile catturare l’interesse quindi brava davvero

    1. Stephi

      Ciao Susy! Grazie davvero! Mi riempie il cuore sapere di essere riuscita a far percepire sentimenti così forti come l’angoscia e la paura, si ha sempre paura scrivendo di non riuscire ad arrivare completamente a chi legge, è una soddisfazione enorme sapere di aver fatto centro! Grazie mille, di cuore! Stephi

  6. Liv

    Ciao. Eccomi qui per commentare il tuo racconto, Stephi. Cosa dire? I miei complimenti perché ho letto una storia che mi ha fatto venire i brividi e questo non è facile, credimi.
    Hai scritto una storia trattando un tema molto delicato come quello della guerra e lo hai fatto con rispetto, in modo semplice e lineare. Hai parlato di un pezzo del puzzle che a volte non viene nemmeno considerato: le famiglie che abitano in quelle terre distrutte dalla guerra e che sono solo delle vittime innocenti in un mondo troppo crudele.
    Sei partita in modo tranquillo per poi portare il lettore verso l’apice dell’ansia e dell’emozione. All’inizio c’è la curiosità di capire chi sono i personaggi e cosa faranno, poi il momento di suspense, pura ansia e voglia di scoprire se sono ancora vivi e poi il dolore che proviamo nell’immaginare questo bambino che non capisce ancora cosa sia la guerra che cerca di confortare i genitori con le sue storie. L’innocenza di quella storia fa venire i brividi perché purtroppo ci sono molti bambini come questo che invece hanno smesso di sognare e giocare.
    Il finale mostra il padre che fa una promessa nonostante sia ferito gravemente e direi che con questo hai centrato in pieno il tema del mese.
    Hai mostrato un padre che cerca di essere forte per la sua famiglia, che fa di tutto per salvarla e che nonostante tutto ha bisogna di aiuto a sua volta.
    I miei complimenti ancora.
    Liv

    1. Stephi

      Ciao Liv! Intanto, come sempre, grazie per lo spazio che mi hai lasciato sul tuo blog e per il tempo che hai dedicato alla lettura! Riguardo il commento, mi hai commossa, davvero. Sono parole che aumentano esponenzialmente la mia autostima e che mi ripagano di tutti gli sforzi fatti per riuscire a mettere questo racconto nero su bianco; come hai notato anche tu, raccontare un mondo a noi lontano e che resta spesso dietro le quinte, come quello delle famiglie coinvolte nelle guerre, è stata una sfida. Sono felice di essere riuscita a rendere un omaggio degno a questa parte della storia che troppo spesso viene oscurata. Grazie ancora, di cuore. Un abbraccio, Stephi

  7. Debora Paolini

    Ciao Stephi. Devo farti tantissimi complimenti. A parte essere scritto bene, davvero bene, il tuo racconto tocca un tema che spezza il cuore, tanto è attuale. Mi hai fatto vivere lì, su uno sfondo fatto di bombe, sangue, polvere e paura, però sei stata bravissima a costringermi a guardare il primo piano, ovvero l’amore che lega ciascun protagonista all’altro, e a farmi intravedere la speranza in una situazione catastrofica.
    Trovo che la tua sia una costruzione matura e consapevole, un lavoro eccellente. E’ stato bello leggerti, grazie mille.

    1. Stephi

      Ciao Debora, grazie di cuore per questo tuo commento! L’ho letto con gli occhi lucidi perché fino al momento prima di pubblicarlo non ero del tutto convinta di come ho deciso di concludere la storia, nella mia testa aveva un altro finale. E mi rende ancora più felice sapere di essere riuscita comunque ad arrivarti nonostante la fatica enorme che ho fatto per scriverlo causa mancanza totale d’ispirazione. Grazie mille, davvero! Mi hai dato una bella motivazione per continuare a credere in quello che scrivo, cosa per niente facile. A presto, Stephi

  8. Interessante. Mi hai sorpreso con la tua scelta sull’ambientazione e sull’argomento trattato. Le tue parole hanno saputo colpirmi con brutalità le corde del cuore e immaginarmi la scena ha avuto l’effetto di un pugno nello stomaco. Ti faccio i miei complimenti per essere riuscita a scrivere di un tema così attuale e doloroso senza risultare pesante o inopportuna. L’ho apprezzato davvero molto.

    1. Stephi

      Ciao Tany, grazie mille per le tue parole e per il tempo dedicato alla lettura, mi fa davvero un enorme piacere essere riuscita a colpirti con questo racconto e ancora più piacere sapere che non ti sia sembrato banale: avevo paura che potesse risultarlo, sapere che non è così mi riempie il cuore. Grazie, davvero! Alla prossima storia, Stephi

  9. Silvia Maria Bragalini

    Ciao Steph!
    Complimenti per questo racconto struggente, sono davvero rimasta colpita. Il contesto storico e geografico è sicuramente interessante ed attuale. Sei stata molto abile nel descrivere momenti di estrema tensione: per un attimo ho pensato davvero che la madre sarebbe morta. La desolazione dopo il bombardamento stringe davvero il cuore, ma sei stata brava a raccontarla 🙁
    Anche dal punto di vista della forma e del lessico mi sembra tutto corretto. Ancora complimenti 🙂

    1. Stephi

      Ciao Silvia! Grazie mille per aver letto la storia e per il tuo commento! Mi fa piacere averti colpito, ero abbastanza indecisa sul proporre un racconto di qualcosa di così lontano dalla nostra quotidianità, sono contenta ti sia comunque piaciuto! Alla prossima, Stephi

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