Nota
Ed eccomi anche questo mese, cari lettori di AlteregoUniversus, a prendere in prestito lo spazio di Liv per portarvi tutti quanti al mare con questo racconto dal titolo “Il mio posto sicuro nel mondo”, che partecipa alla sfida di giugno lanciata da Lady C, autrice de La Nicchia Letteraria, all’interno della rubrica mensile Storytelling Chronicles.
Una piccola nota alla storia: il luogo in cui è ambientato il racconto esiste davvero, si chiama Pigeon Point Lighthouse e si trova a Pescadero, in California. Se ve lo state chiedendo, no, non ci sono mai stata, ma in questi mesi di reclusione forzata ho approfittato degli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione per scoprire parti del mondo che chissà, quando la situazione tornerà sotto controllo, forse prima o poi visiterò. Intanto, vi e mi ci porto con le parole di questo scritto. Spero di averlo fatto dignitosamente, e che questo tuffo Oltreoceano possa piacervi!
Colgo poi l’occasione per ringraziarvi infinitamente per tutti i commenti che di mese in mese scrivete ai racconti che pubblico: sappiate che, per una persona dalla scarsa autostima come la sottoscritta, sono preziosi, e mi stanno aiutando a crescere ed esplorare questo mondo fantastico che si stende nero su bianco ogni qualvolta apro un file Word in modi che prima non avevo neanche immaginato possibili. GRAZIE, di cuore.
Stephi
Il mio posto sicuro nel mondo
Quando arrivo alla spiaggia, le prime luci dell’alba stanno appena facendo capolino alle mie spalle. Parcheggio l’auto in uno degli stalli che circondano la zona, e per qualche minuto che sembra durare in eterno resto così, immobile, a guardare il cielo farsi sempre più chiaro.
Muovendomi meccanicamente, come un automa che ha ormai imparato a memoria la sequenza di azioni da attivare per portare a termine il suo compito, raccolgo dal sedile del passeggero al mio fianco giacca e borsa, poi esco dalla macchina. Il profumo del mare mi riempie. Inspiro a pieni polmoni, espiro dolcemente, lascio che quest’aria così familiare ritorni ad occupare dentro di me gli spazi che le appartengono. Ancora una volta inspiro, espiro; inspiro, espiro; inspiro, chiudo la portiera girando la chiave, espiro. Il vento mi scompiglia i capelli, danzando con loro un ballo le cui note mi riportano alla mente pensieri che mi mettono i brividi. Indosso la giacca, allaccio uno ad uno tutti i bottoni, mi infilo la borsa a tracolla e muovo un primo, piccolo passo verso il sentiero che conduce al faro e poi giù, dagli scogli alla sabbia, alle onde. A noi.
Tutto è rimasto esattamente come lo ricordavo: le piccole casette bianche e azzurre dell’ostello dove ci siamo conosciuti; il grande faro dalla luce dorata dove per la prima volta ci siamo baciati; la piccola spiaggia nascosta dagli scogli dove ci siamo promessi amore eterno; i tavolini da picnic dove la tragedia è cominciata.
Camminare verso la meta mi costa un’enorme fatica. Man mano che percorro il pontile che divide la terraferma dal mare, le poche forze che mi tengono in piedi sembrano quasi scomparire, tanto che più volte sono costretta ad aggrapparmi alle balaustre per non cadere. Mentre recupero l’equilibrio, stretta a quest’ancora di salvataggio di fortuna, con lo sguardo scruto le onde infrangersi impetuose contro gli scogli. Mi torna in mente una frase che spesso sento ripetere, quasi ossessivamente, quasi come fosse vera: l’amore ci salva. E penso che per me, da quando la fine ha avuto inizio, l’amore faccia una cosa sola: ci annienta. Davanti ai miei occhi, la furia del mare continua a scontrarsi, caparbia, contro le rocce. È così che mi sento. Sono un mare in burrasca.
Per raggiungere il nostro rifugio, un’insenatura interamente circondata dalle rocce della scogliera, impiego una buona decina di minuti. Di questo lembo di terra, all’apparenza angusto e inospitale, amo follemente il modo in cui la sabbia dorata mai si stanca di abbracciare il mare, accogliendo affettuosamente le onde anche quando queste non sono particolarmente di buon umore. Mi fa sentire un po’ meno sola. Ma questo sentirsi parte di qualcosa è un sentimento che dura poco: non appena mi siedo, adagiandomi sullo spuntone che sembra meno scomodo, l’unica cosa che provo è una struggente malinconia.
Ero certa che negli anni mi ci sarei abituata. Che ci avrei dato sempre meno peso, che avrebbe fatto in qualche modo sempre un po’ meno male. È esattamente il contrario. Ogni volta che ritorno qui, il vuoto che ho nel cuore non è mai meno vuoto: è sempre più profondo, a modo suo è sempre più pieno.
Tremando, estraggo dalla tasca sinistra della giacca, quella cucita sul cuore, una polaroid consumata, se più dal tempo o dalle troppe volte in cui l’ho stretta tra le mani guardando il mare non saprei dire. È stata scattata cinque anni fa, proprio qui, tra queste rocce. L’inchiostro ha impresso per l’eternità su questa carta due ragazzi innamorati, della vita e l’uno dell’altra. Lui, stretto nella sua giacca in jeans, riccioli neri a incorniciargli il viso e occhi verdi inchiodati ai miei. Io, abito lungo color cipria, i biondi capelli mossi dal vento, le mani strette, quasi aggrappate, nelle sue. Allora ancora non sapevamo, eravamo soltanto due sorrisi eternamente stampati su volti mai troppo stanchi di scrutarsi a vicenda.
In quei giorni il nostro amore era appena sbocciato: bastava un suo sguardo, una stretta di mano a garantirmi che sì, tutto quanto sarebbe andato per il verso giusto, tutto quanto avrebbe funzionato, che niente e nessuno avrebbe potuto dividerci, trasformare completamente le nostre vite, e cambiare per sempre i nostri sogni. La felicità, a quei tempi, avesse avuto un volto e un nome, sarebbe stata Michael.
Lo sentivo nella pelle, in ogni fibra del mio corpo: era la persona giusta, la persona che ti capita di conoscere una volta sola nella vita e tu lo sai, il tuo cuore lo sa, che dopo di lei niente più sarà lo stesso. Ci siamo promessi così amore eterno, pur conoscendoci da poco, giurandoci che di lì in poi ci saremmo stati sempre l’un per l’altra, a qualunque costo, e sussurrandoci una ad una tutte quelle stupide romanticherie da innamorati che a ripensarci a distanza di anni a stento trattieni un sorriso, ma che allora valevano più di ogni altra cosa.
Non ho ricordi di quei momenti che non siano gioiosi: se dovessi descrivere l’anno che abbiamo trascorso insieme prima dell’inizio della fine, non credo esisterebbe definizione migliore di “un sogno ad occhi aperti”. Solo che prima o poi i sogni si scontrano con la realtà, e ciò che ti sembra invincibile si sgretola senza che tu riesca neanche a fare un tentativo per evitarlo. Perché a 20 anni a tutto il resto non pensi.
Non consideri, non ti lasci sfiorare dalla possibilità che la vita si metta di mezzo ai tuoi piani, per stravolgerli, per stravolgerti. Ovviamente non ci credi, che possa succedere a voi, ad un amore appena nato, a due cuori che hanno a stento imparato a battere insieme. Non lo accetti, non ti rassegni, cerchi in ogni modo di ribellarti, di sfuggirne, di non lasciarti sopraffare. Ma come ci si oppone a una guerra? Nessuno me l’ha mai saputo dire.
Quando i telegiornali iniziarono a diffondere voci sempre più insistenti di una possibile nuova chiamata alle armi, Michael rideva. Di fronte ad ogni articolo di giornale che preannunciava l’invio di nuove forze in Medio Oriente, Michael scherzava. Si diceva certo che non sarebbe toccato a lui, di aver già servito il Paese, di essere tranquillo. E io gli credevo. Avevamo entrambi il cuore troppo offuscato dai nostri reciproci sentimenti per capire che invece quella che sembrava una remota possibilità si sarebbe presto trasformata in una prossima certezza, e che il giorno in cui avremmo dovuto coronare il nostro sogno, sposandoci, sarebbe stato invece l’ultimo in cui poterci stringere l’uno tra le braccia dell’altra, prima di dirci arrivederci senza sapere quando e se ci saremmo rivisti davvero.
Da quel ricordo sono passati quattro anni. Quattro anni che la nave della marina militare con a bordo Michael è salpata dal porto di San Diego, portandolo con sé in questa missione. Quattro anni in cui, ogni 22 novembre, faccio ritorno a questo angolo di terra dove la nostra storia avuto inizio per implorare il mare di riportarmelo indietro vivo, di non farmi pronunciare mai per l’ultima volta la parola “fine”.
Anche il giorno prima di partire ci eravamo dati appuntamento tra questi nostri scogli, per gridare ancora una volta al mare quanto grande è il nostro amore. È qui che Michael mi ha promesso che mi amerà per sempre, qui che io ho promesso lui che lo aspetterò ogni giorno, scrutando le onde all’orizzonte, finché non farà ritorno.
“E se non dovessi tornare?”, mi aveva chiesto.
“Tu tornerai”, gli avevo risposto.
Sono di nuovo qui, oggi, come ogni 22 novembre da quattro anni a questa parte. Ai nostri scogli. Aspetto Michael al nostro posto nel mondo. Stringendo tra le mani la nostra prima foto insieme, invece che lui, con gli occhi pieni di lacrime e sempre più vuoti di me e di noi.
È il rumore delle onde che con sempre maggior forza si infrangono sulle rocce a riportarmi alla realtà: sono passate due ore o due minuti? Non lo so. Con lo sguardo mi perdo nelle nuvole che riempiono l’atmosfera all’orizzonte. Nuvole scure, cariche di pioggia, che cancellano con le loro sfumature la linea immaginaria che divide cielo e mare. Mi chiedo se il nostro amore sia finito lì in mezzo, tra le cose sospese troppo belle per essere reali eppure troppo dolorose per essere soltanto frutto dell’immaginazione.
Con cura ripongo la polaroid nella tasca della giacca sua prigione, e con il dorso della mano asciugo le lacrime che, silenziose, continuano ad attraversarmi il viso. La tempesta che ho dentro, come le onde del mare ai miei piedi, neanche oggi sembra volersi placare. È il momento di andare.
Richiamando ogni residua forza che mi rimane, a fatica mi alzo dal nostro rifugio. Quanto è difficile trovare l’equilibrio fuori quando ti manca un pezzo così vasto dentro?
Passo dopo passo, come fossi in bilico su un filo invisibile che vedo solo io, raggiungo nuovamente il sentiero che mi ha portato verso gli scogli, ma non imbocco la strada verso l’auto: scendo a destra, verso il mare. Quando arrivo sulla spiaggia, tolgo di fretta le scarpe, la borsa, la giacca, e inizio a correre disperatamente verso le onde che, piene di rabbia, si scagliano con violenza sul bagnasciuga. Lascio che gli spruzzi d’acqua mi raggiungano il viso, mescolandosi al mio pianto; che il mare si infranga su di me e mi trascini via, nella corrente. Non oppongo resistenza.
In balia dell’acqua, immersa nel suo vorticoso fluttuare, mi sento compresa. Ritrovo la mia dimensione. Trasportata dal mare, resto a galla sorretta soltanto dal peso del mio corpo: lascio che siano le onde a guidarmi, a decidere se la strada giusta per me siano gli abissi o la terra ferma. Mi riportano tra le sue braccia.
“Sarah… Sarah! Sarah!!!”
Sento una voce pronunciare il mio nome e credo di essere morta. Il tono, la sfumatura particolare con cui le vocali gli si incastrano tra le labbra, la dolcezza con cui culla il mio nome mentre mi trascina lontano dalle onde, può essere solo…
“Michael?”
“Sarah! Oddio Sarah! Sarah!”
“Michael io… tu… Michael!”
“Cristo Sarah, cristo!”
“Michael, tu…” Incespico tra le mie stesse parole, mentre sputo fuori dai polmoni l’acqua del mare entro cui lentamente mi stavo lasciando andare. Tossisco, cercando di metabolizzare ciò che è appena successo. “Tu… sei vivo!” riesco ad esclamare, prima di scoppiare in un pianto interminabile con cui do sfogo a tutto il turbinio di emozioni che ho tenuto dentro durante la sua interminabile assenza.
“Certo che sono vivo! Credevi che ti avrei mai potuto lasciare? Che non sarei mai più tornato?” mi chiede, sollevandomi il volto con entrambe le mani e puntando i suoi occhi dritti nei miei.
“Ho avuto paura non tornassi, sì”, ammetto.
“Te l’avevo promesso”, ribatte.
“Volevo raggiungerti…”
“Buttandoti in mare? Togliendoti la vita?”
“Pensavo fossi morto, Michael. Erano mesi che non ricevevo più tue notizie. Nessuna lettera, nessuna chiamata, niente di niente. Ho pensato al peggio, tremato ad ogni telefonata ricevuta da un numero sconosciuto, ad ogni viso non familiare apparso alla porta… Potevi essere morto. Non ti sentivo più, non ti vedevo più, potevi essere morto.”
“Le cose si sono fatte complicate, laggiù. Hanno bombardato le antenne più vicine, facendo saltare i collegamenti satellitari, e reso difficili anche gli scambi di comunicazioni via terra, con offensive mirate. Ci sono stati giorni in cui anche io ho temuto per il peggio. Ma non ti avrei mai lasciata sola, Sarah: eri tu la mia luce, tu la mia speranza, tu l’ancora di salvataggio cui mi aggrappavo nei giorni più bui sapendoti qui a pregare per me. Non me lo sarei mai perdonato, se fossi morto, di averti lasciata sola… Amore mio.”
Accarezzandomi il viso, mi stringe in un abbraccio che più si fa stretto più ricompone pezzi di me che credevo aver perso per sempre.
“Mi hai salvata un’altra volta, Robb”, sussurro, man mano che il suo calore mi riporta in vita.
“Contando tutte le volte in cui mi hai salvato tu dall’altra parte del mondo, McClare, credo proprio che la situazione sia di assoluta parità!”, sentenzia, mentre mi avvolgo con maggior forza al suo corpo.
Così, restiamo abbracciati sulla riva del nostro mare, avvolti in un silenzio interrotto solo dal brontolio delle onde e dei garriti dei gabbiani.
E tra quelle braccia di cui per troppo tempo ho sentito la mancanza, ritrovo il mio posto sicuro nel mondo.
Autore: Stephi
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Il contenuto pubblicato sopra è protetto dalla normativa vigente in materia di tutela del diritto d’autore, legge n. 633/1941, qualsiasi riproduzione anche parziale senza autorizzazione è vietata. Questa breve storia è un’opera di fantasia, personaggi e situazioni sono inventate e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.
Semplicemente meraviglioso. Ho la pelle d’oca. Mi sono emozionata. Sono così contenta per i due protagonisti. Per un attimo ho temuto il peggio. Complimenti. Scrivi benissimo.
Silvia di Silvia tra le righe.
Sarà che sono reduce dal mio racconto di giugno, ma credevo che Sarah si ammazzasse -la mia mente è malata, sì ahah- T_T Fortuna che non è successo e che Michael è tornato a casa sano e salvo :3 Insomma, due pazze autolesioniste in uno stesso mese della rubrica di scrittura creativa non ci potevano essere, dai ahahah Però, confessiamolo a gran voce: pure tu non scherzi eh XD Ahahahah
Comunque, il presente racconto è il classico del quale si vorrebbe parlare all’infinito, ma per il cui decantare, purtroppo, non esistono abbastanza vocaboli *-* Quindi, mi è piaciuto, moltissimo <3 Ecco, se proprio devo rompere le palline -in questo sono molto brava ahah-, la scena dove lei inizia a sentire la voce di lui: le dinamiche del suo salvataggio dal mare in tempesta -presumo, cioè da lettrice ho dato per scontato ce ne fosse uno ahah- risultano un po' troppo fumose. :/ Niente di che, eh, perché il tutto si intuisce molto velocemente e facilmente, ma per sicurezza forse era meglio specificarlo, onde evitare fraintendimenti superflui 🙂
Mi ha emozionato molto.
Mentre leggevo a un certo punto ci sono davvero cascata, ho proprio temuto che si concludesse tutto in tragedia.
Sei stata brava a condurre il lettore dove volevi, a portarlo sull’orlo della crisi e poi a tirarlo su con un unico strappo deciso.
Bello e scritto bene, sia dal punto di vista formale sia da quello narrativo.
Ok, Stephi… A tre quarti del racconto ho pregato in cinese (e il cinese non lo parlo nemmeno) perché lui non fosse morto! E che lei davvero non annegasse! E che tutto non fosse così “mai una gioia” come sembrava dal punto di vista della protagonista! Mi sarei accodata alla sequela di rimproveri che ti saresti sorbita in quel caso! Perciò, se mai ti capitasse di scrivere un racconto con un finale triste, ti prego, ti prego, avvisami prima, così parto psicologicamente preparata.
Detto questo, che è il commento a caldo ed emotivamente instabile, ti devo assolutamente fare i complimenti, perché è un racconto ben scritto, coinvolgente, emozionante… In una parola: perfetto!
Io non ho altro da dire, tranne brava! Brava, brava, bravissima 😅❤️
Alla prossima
Federica
Ed ecco qui un’altra che ama far soffrire i lettori. Ho letto continuando a ripetere: Stephanie, le sentirai perché hai fatto uccidere lui. Non puoi aver distrutto la loro storia, mi piaceva come inizio romantico.
Sono entrambi vivi, per fortuna.
Passando a cose più serie, il racconto è scritto davvero bene, colpisce nei punti giusti e ti fa stare con l’ansia fino alla fine. Mi è piaciuta davvero tanto la descrizione che hai usato e il paragone con i sentimenti della protagonista, l’attesa, il senso di smarrimento, il dolore e l’impotenza davanti alla forza della natura e della vita stessa.
Hai talento per raccontare le cose e trasmettere dei sentimenti a chi legge, quindi non smettere mai.
A presto,
Liv
Eccone un’altra che mi ha fatto piangere prima dal dolore poi dalla gioia e sollievo. Vi siete forse messe d’accordo te e Lara per far sì che i miei occhi diventassero un po’ umidi? Parlando seriamente, il tuo racconto è davvero magnifico, da ogni parola traspare un amore che trascende la paura e la separazione, Non appena si vede un cedimento di speranza, ecco ritornare l’altra metà della propria anima. Mi sono commossa, complimenti.
No, no, no, leggere questo racconto dopo quello di Lara mi ha dato il colpo di grazia! Troppa emozione tutta insieme che mi ha tolto il sonno e la voglia di dormire. Stephi non sai quanto ti sono grata per questo happy ending inatteso, ero già in pieno mood da “è finita, devo aprire i rubinetti per forza!” tanto mi hai trascinata, sballottata, sorpresa. Ho adorato ogni frase, ogni immagine, ogni dettaglio TU SAI SCRIVERE, ragazza, fattene una ragione! Riesci, con uno stile fluido e potente, a scardinare ogni certezza e catturare il lettore fino all’ultima parola. Sto cercando di riprenderli ma non è facile, ripenso a questo amore dolce, quasi d’altri tempi, che ci racconta di come possa essere fragile a causa dell’egoismo umano…
Non ho altro da dire, stasera sono stordita e ammirata, sei fantastica e non vedo l ora di leggerti ancora e ancora!!! Complimenti davvero 💜
Hi! Questo racconto mi ha lasciata stranamente un po’ “inquieta”, il romanticismo non mi fa esattamente impazzire, neppure le scene strappa lacrime, per quanto adori il drama, sono più propensa per rappresentazioni differenti seppur rappresentate molto bene. Questa è una mera questione di gusti però. Ammetto apertamente la bravura nella rappresentazione del tutto, trovo lo stile molto classico e basico. Il testo mi è sembrato pulito e non arricchito in maniera inutile da fronzoli cosa che l’ha reso leggero e piacevole da leggere.
Ciao Marianna! Ti ringrazio per il commento. Mi dispiace che ti sia sentita “inquieta” da quanto scritto, è un feedback importante per me perché mi fa leggere tutto il racconto da un punto di vista diverso, e di questo ti sono riconoscente! Spero di riuscire a regalarti letture più piacevoli nei prossimi scritti. A presto, Stephi
Ciao Stephi. Sono rimasta davvero colpita dalla tua storia. Innanzitutto il luogo che hai descritto mi ha ricordato un posto a me molto caro… e tu lo hai presentato a noi con tanti particolari! Inoltre ci sono frasi del tuo racconto (una su tutte, quella delle cose belle ma sospese e troppo dolorose per non essere reali) che mi hanno veramente sorpreso. La tua penna è molto aggraziata, davvero! Sono stata felice dell’happy ending, la storia è romantica e drammatica ma è finita bene! Complimenti, il racconto mi è piaciuto tanto!
Ciao Silvia 🙂 Non sai quanto mi rasserena leggere questo tuo commento. Le descrizioni sono sempre state un mio cruccio! Vedere che sto riuscendo a superarlo mi rende felice, e ti ringrazio per averlo notato! Sono altrettanto contenta di essere riuscita a sorprenderti con quanto scritto, e spero di continuare a farlo anche nei prossimi racconti, così come riesci a fare tu con i tuoi 🙂 A presto, Stephi
Cara Stephi, io vorrei che tu potessi vedere la mia faccia mentre leggo le storie che scrivi, vorrei tu sentissi quanto mi batte il cuore e come in testa risuonano “Wow!” a non finire. Anche questo racconto è meraviglioso. Hai una penna potente che fa arrivare emozioni a ogni riga, e non riesco a capire la tua scarsa autostima. La sola cosa che mi è saltata all’occhio è una certa frequenza nell’uso di avverbi in “mente” che forse potresti ridurre, ma per tutto il resto, io m’inchino e basta. Mi viene anche difficile scrivere i commenti perché quando si è davanti a una cosa bella, la cosa migliore da fare è ammirarla e… imparare qualcosa. Grazie.
Ciao Debora! Penso la tua faccia sia la stessa faccia che sto facendo e che faccio io ogni volta leggo qualcosa di tuo o i commenti che lasci alle storie che scrivo. Posso dirti una cosa: partecipando a questa rubrica sto pian piano imparando a riconoscere la mia capacità. E se sto iniziando a convincermi di questo, beh, è anche merito tuo, che nei mesi mi hai spronato nei commenti e ispirato con le storie che hai scritto a tua volta. E per questo ci serve un GRAZIE urlato. Tornando al racconto in sé, rileggendolo ora che sono passati un po’ di giorni dalla sua pubblicazione ho notato a mia volta questa tendenza all’uso di avverbi: ti ringrazio per avermelo segnalato e ne prendo nota per i prossimi, è una cosa che faccio istintivamente ma sono d’accordo con te sul fatto che si possano ridurre, anche per evitare di creare un ritmo pesante al tutto. Concludo con un PS: al tuo “la cosa migliore da fare è ammirarla e… imparare qualcosa” mi sono venuti i brividi. E qui il secondo urlo: GRAZIE. Di tutto cuore.